domenica 12 aprile 2009

Il Novecento secolo del socialismo impossibile

di Giuseppe Prestipino

Domenico Losurdo, in Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, Roma, 2008, riporta una nota di diario scritta da Dimitrov il 12 maggio 1941, prima dell’aggressione hitleriana («Bisogna sviluppare l’idea che coniuga un sano nazionalismo, correttamente inteso, con l’internazionalismo proletario […]. Il cosmopolitismo senza patria , che nega il sentimento nazionale e l’idea di patria, non ha nulla da spartire con l’internazionalismo proletario»). Ma già nel corso della guerra civile, scatenata da Denikin e da Kolčiak, Stalin aveva detto: «Il governo sovietico è l’unico governo popolare e nazionale nel significato migliore di questo termine». Nell’agosto 1942 Stalin dichiara che l’Armata rossa «non può nutrire odio razziale contro altri popoli e quindi neppure contro il popolo tedesco». Stalin interviene sul progetto di Costituzione del 1936 per dichiararsi favorevole alle libertà religiose e contrario alla privazione dei diritti elettorali per i sacerdoti. Per lui, la Costituzione non si limita a «fissare i diritti formali dei cittadini, ma sposta il centro di gravità sulla garanzia di questi diritti, sui mezzi per l’esercizio di questi diritti» (l‘art. 3 della nostra Costituzione italiana è “staliniano”?), tra i quali il carattere universale e segreto del voto. Ho riportato quelle dichiarazioni, non per fare dello stalinismo un’apologia che, peraltro, non si trova neppure nel libro di Losurdo, nel quale sono esaminate le cause e l’ampiezza dell’«universo concentrazionario» sovietico, pur se raffrontato con i solitamente taciuti campi di segregazione occidentali e “liberali”. Ho riportato quelle dichiarazioni per poter avvalorare la tesi di un socialismo impossibile nel Novecento, impossibile per ragioni storiche oggettive e anche a mortificazione dei buoni propositi soggettivamente coltivati.
Erano in errore sia i marxisti ortodossi, nel ritenere che la Russia dovesse passare per il pieno sviluppo capitalistico prima d’essere matura per la rivoluzione, sia Karl Kautsky e Rosa Luxemburg nel condannare come abbandono del socialismo la politica di Lenin per la terra ai contadini. In Urss Stalin vede più giusto dei suoi avversari in una buona parte delle scelte strategiche e delle azioni politiche contrastate da altri esponenti del suo partito, ma poiché il popolo non è chiamato a decidere democraticamente su quei contrasti (pur con il rischio di darla vinta a chi ha torto) e poiché anche nel partito la democrazia è inesistente, la rimanente parte delle scelte e delle azioni staliniane, frutto di errori che peraltro lo stalinismo ha in comune con quei suoi avversari interni, lo condurrà alla sua sconfitta storica. Non saprei dire se la collettivizzazione forzata nelle campagne, avversata con giustificato timore da Bucharin, fosse «la via obbligata», come scrive Losurdo a p. 131, per accelerare l’industrializzazione e assicurare i rifornimenti alimentari nella prossima, inevitabile guerra con la Germania. Il culto della persona è eredità zarista (Losurdo mostra che, dopo la rivoluzione di febbrario, un culto della personalità circonda lo stesso Kerenskij), ma è anche il risvolto russo del cesarismo occidentale sorto negli anni Venti e Trenta, in un rapporto di mimesi reciproca, non soltanto di offesa-difesa reciproca. La fine del nazismo e del fascismo in Germania e in Italia avrebbe potuto e dovuto mitigare la dittatura sovietica, pur nelle nuove tensioni venute, senza soluzione di continuità, dalla guerra fredda. Tra gli altri errori di Stalin e dei suoi successori: il non aver accettato la sfida (occidentale post-fascista) della democrazia negli irrequieti paesi “satelliti”del Patto di Varsavia, in cambio della loro non adesione al Patto Atlantico. Il criterio dei “paesi-cuscinetto” era irrealizzabile nel clima incipiente della guerra fredda? Una sorta di “protettorato” del Consiglio di sicurezza ONU su quei paesi avebbe potuto offrire garanzie sufficienti all’URSS? Specie se allargato a tutta la Germania e a tutti i Balcani?
Una teoria errata aveva identificato, già in Lenin, democrazia e democrazia borghese. Ma, nella storia, la democrazia schiavista ateniese è diversa dalla democrazia feudale e/o corporativa, a sua volta diversa da quella moderno-borghese. La critica giovanile di Marx alla democrazia perché opererebbe un’arbitraria scissione tra il borghese (o proletario) e il cittadino, predicando soltanto per quest’ultimo l’eguaglianza, è una critica che semplifica troppo la cosa. Infatti, la scissione metodica e funzionale tra società e società civile è necessaria ma non sufficiente, per una democrazia socialista, se non sono rimosse la cause sociali che, come recita appunto l’art. 3 della Costituzione italiana, ostacolano di fatto l’esercizio di uguali diritti tra tutti i cittadini nella società civile. E’ una generosa illusione teorica pensare, come Rosa Luxemburg, che una rivoluzione violenta, intransigente e prolungata potesse farsi da parte e lasciare il campo a una democrazia socialista. La rivoluzione, prolungatasi nella guerra civile contro i Bianchi, e la sua disciplina sono alla base della militarizzazione intesa anche come mentalità e costume (e come cultura del sospetto). La stessa «tradizione cospirativa bolscevica si ritorce contro il regime scaturito dalla rivoluzione bolscevica» (Losurdo, p. 78). Del resto, già Lenin aveva consigliato, nella pubblicistica semi-clandestina contro il dispotismo zarista, un «linguaggio esopico», ovvero cifrato, per sfidare la censura. Gramsci mostrerà nel «parlamentarismo nero» la conseguenza patologica degli impedimenti a manifestare pubblicamente e legalmente il dissenso. Quelle pratiche, peraltro, non incoraggiavano soltanto gli avversari interni a fingersi amici per false delazioni ecc.; aprivano brecce anche ai nemici esterni, in specie alla Germania hitleriana, per alimentare tra i dirigenti politici e militari sovietici reciproche, quanto feroci, accuse di tradimento. A loro volta, la militarizzazione e il ruolo di direzione economica attribuito a un partito formato per cooptazione, e quindi irrigidito nei quadri superiori e intermedi, provocano la burocratizzazione (già temuta da Lenin) dello stesso partito e la sua graduale trasformazione in uno strato parassitario più che in un corpo manageriale chiamato a gestire di fatto le attività economiche, che perciò ristagnano, restano prive di “distruzione creatrice” (Schumpeter) e predisposte al riciclaggio, dopo la fine dell’Urss, da quel ceto burocratico a un ceto di affaristi capitalistico-mafiosi. Perché in Usa le tecnologie militari più avanzate hanno avuto importanti ricadute sulle tecniche economiche e in Urss no? In Urss l’industria bellica era un comparto separato e circondato da quasi assoluta segretezza, mentre negli Usa l’industria bellica era costituita da imprese ciascuna delle quali aveva rapporti di affiliazione organica con singole industrie civili di punta.
L’involuzione burocratica di un sistema ha necessità di un immobilismo che si manifesta non soltanto, come è noto, con il moltiplicare i funzionari incaricati di una medesima funzione, ma anche attraverso il protrarsi oltre misura di discussioni sul metodo, o per incapacità di affrontare e risolvere problemi di merito o per timore che le discussioni sul merito espongano ad accuse di deviazionismo o, in regimi di tipo sovietico, persino di tradimento. E tuttavia marcate divergenze nelle soluzioni proposte da indirizzi diversi del gruppo rivoluzionario sarebbero inevitabili e anzi auspicabili, posto che la costruzione di una società nuova non potrebbe avvalersi di esperienze storiche precedenti e quindi di “precetti” collaudati. Anche partiti di opposizione radicale, democratici e di modeste dimensioni possono ammalarsi di burocratismo. E possono, su questioni di metodo o procedurali, andare incontro a ulteriori scissioni e frammentazioni. E anche partiti di alternativa antagonista, in paesi capitalistici, possono ricadere in una imprevista, ancorché occultata, involuzione delle forme democratiche, se si rivelano da un lato incapaci di sostituire i contrasti di metodo con divergenze di merito e se, dall’altro lato, non sanno conciliare il principio della maggioranza che decide, sulle scelte politiche generali, e il principio della gestione unitaria dell’organizzazione (il principio di libertà nelle differenti opinioni e il principio di responsabilità nelle azioni comuni). Anche in un piccolo partito, operante nel rispetto della democrazia, l’opportunismo (ad esempio, “filogovernativo”) può travestirsi da sinistrismo.
La democrazia moderna è una democrazia permanentemente insidiata. Nei regimi totalitari è soppressa, ma anche dopo la seconda guerra mondiale e dopo la fine della guerra fredda la democrazia ha un percorso accidentato e contraddittorio. La tendenza più recente è nella maggiore diffusione geografica, anche in paesi periferici, delle procedure democratiche per la formazione dei gruppi politici dirigenti. Ma, una più forte contro-tendenza conduce ad esautorare quei gruppi o a spostare i centri del potere politico effettivo là dove si esercita, di fatto, il governo tecnocratico dell’economia-mondo. La globalizzazione mantiene in vita e anzi moltiplica gli Stati-nazione formalmente democratici, ma li subordina sempre più ai poteri a-democratici del nuovo sistema-mondo. I presupposti di un tale spostamento del potere politico effettivo erano già visibili nella fase precedente, pur se in modi diversi da paese a paese. Il periodo tra le due guerre mondiali è, in realtà, quello di una guerra civile europea nella quale, pur con temporanee sostituzioni di interlocutori e con patti provvisori di non aggressione, elemento centrale diviene lo scontro bellico tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. L’Unione sovietica ha il sopravvento, ma paga al nemico un prezzo altissimo, non soltanto in perdite di vite umane e di risorse materiali, ma anche per una accentuata degradazione del suo regime politico: si può dire che, in Urss, dal 1937 in poi, il potere di un uomo o di un partito o di una burocrazia manageriale e persino di un apparato militare-industriale è gradualmente sostituito dal potere dei servizi segreti, che (pur con vicende alterne) non perdono il loro ruolo neppure dopo la demolizione del culto di Stalin e, anzi, avranno la maggiore iniziativa nelle vicende che condurranno al declino e poi alla fine (o alla “democratizzazione”) dell’Urss. Si noti che la potenza dei servizi segreti è alimentata e incrementata, anche in Urss come e più che negli Stati uniti, dal nuovo carattere imperialistico dell’Urss in quanto dominatrice dei turbolenti Stati satelliti in Europa centro-orientale. In Occidente, la guerra fredda favorisce fenomeni simili, benché tenuti sotto maggior controllo dalle maggioranze e dalle opposizioni democratiche: negli Stati uniti, il maccartismo prima e gli intrighi (non sempre noti a quella Presidenza) della CIA sono intimamente legati ai disegni imperialistici di quel paese. In Italia, i complotti specialmente orditi dalla P2 danno man forte al “potere” effettivo della CIA o della “Trilaterale”. Con la globalizzzazione giunge a compimento un processo che svuota, non più soltanto dall’interno, ma anche “dall’alto” la democrazia. Si producono forme nuove di “endo-colonialismo” (gli immigrati sono sotto-uomini privi di diritti democratici) e di “auto-imperialismo” (l’Europa della moneta unica esercita diritti quasi-imperiali sugli Stati membri). La crisi potrebbe aggravare quei fenomeni involutivi. Perciò oggi più che mai lottare per il socialismo è insieme fortificare e liberare la democrazia, come dimostrano alcuni esperimenti latino-americani. La tesi di un Novecento come secolo del socialismo impossibile non è affatto una tesi “giustificazionista”: Tuttavia si discosta dalle ingenue condanne moralistiche o intellettualistiche che, vedendo soltanto “orrori” o “errori”, concludono (erroneamente) con il considerare o sempre e per sempre impossibile il socialismo o possibile nello stesso Novecento “se le cose fossero andate diversamente”.